Intervista all’autore: Claudio Capretti, “…E non fanno rumore”
Con il 2016 si riapre la nostra rubrica dedicata alle interviste ai nostri autori.
Conoscere un libro soltanto dalle poche righe della quarta di copertina ci è sempre sembrato riduttivo, perché poi è sempre bene conoscere l’autore e le motivazioni che lo hanno spinto a scrivere il suo libro.
Quando Claudio Capretti ha preso in mano il suo ultimo libro “… E non fanno rumore” la sua emozione visibile anche agli occhi di un bambino.
Beh per una casa editrice è la più grande soddisfazione in assoluto!
Oggi siamo qui per fare a Claudio alcune domande sulla sua ultima fatica letteraria e per farvi consce la bella persone che è.
- Claudio tu non sei un autore emergente. Hai al tuo attivo altri testi. Cosa ti ha spinto ad iniziare questa bella esperienza editoriale?
Alla base di tutto, penso ci sia stato il desiderio di restituire ciò che ho ricevuto dalla vita. Infatti, la finalità di un dono non consiste soltanto nello stupore e nella gratitudine, ma anche nel non considerare un tesoro geloso ciò si riceve. Ovviamente ognuno di noi ha i suoi tempi e la sua specificità, la mia è stata quella della forma letteraria.
- “…E non fanno rumore” è un testo molto intenso, perché parla della tua esperienza come volontario nelle carceri italiane. Come hai maturato la decisione di intraprendere questo percorso?
Tutto è nato senza volerlo e senza neanche immaginarlo. Lo descrivo nel primo capitolo. Penso che alla base di questa scelta ci sia stata la profonda gioia che ho provato la prima volta che sono entrato in carcere per un’animazione liturgica. Tutte le ansie e le paure che mi accompagnavano si sono di colpo dissolte appena ultimato quel servizio. Quel giorno, ho compreso che il mio posto era di stare in mezzo alle persone detenute, aiutandole come potevo. Da quel giorno, quella “periferia del mondo” è diventata una seconda casa. Posso comunque affermare che sia stata la gioia a fare si che mi incamminassi su questa strada, poi ovviamente c’è stata la fase del confronto e della preparazione a confermare questa scelta.
- Quanto è difficile capire e accettare questa realtà?
Vorrei precisare che questa realtà, più che capita va innanzi tutto accettata così com’è. In questa circostanza soffermarsi al voler capire del perché una persona sia scesa così in basso o ricercarne le ragioni per offrire loro una soluzione, si rischia di “seminare” nel “campo del giudizio”, e il raccolto non è mai buono. Quindi penso che la realtà carceraria vada innanzi tutto accettata, ovviamente con il giusto equilibrio e con la giusta consapevolezza. Detto questo, c’è una comprensibile difficoltà iniziale nell’accettare questa realtà; una difficoltà legata sia al contesto carcerario, ma anche ai propri limiti umani. Ognuno di noi ne è un “portatore sano”. Ma il tutto può e deve essere superato e le difficoltà esistono proprio per questo. Se abbiamo ben chiara la consapevolezza che siamo sulla strada bella e buona del bene, tutto diventa più facile e ogni ostacolo può essere superato con molta serenità.
- Che cosa ti lascia questa esperienza di volontariato ogni qualvolta si conclude?
C’è un miscuglio di sentimenti che si rincorrono ogni volta che esco dal carcere dopo aver svolto il servizio di volontario. Sono sentimenti che si diversificano in base agli incontri che ho svolto con le persone detenute. A volte prevale la felicità nel vedere il progresso di un detenuto che stai accompagnando in quel momento, oppure perché grazie ad una mediazione con i loro familiari, qualche rapporto si è ricucito o rasserenato. A volte vado via deluso per aver ritrovato un detenuto che aveva promesso che non sarebbe mai più rientrato in carcere. Vi è anche la consapevole responsabilità della fiducia che hanno riposto nelle mie mani nel rendermi partecipe di alcuni aspetti delicati della loro vita. Oppure vi è il dispiacere per delle risposte rimaste in sospeso, risposte che in quel momento non sono stato in grado di dare, e che devo per questo ricercare. Ma aldilà di questi aspetti, sempre vado via con un fondo di amarezza, perché penso a coloro che il male,direttamente o indirettamente, ha colpito attraverso la persona che ho appena incontrato.
- Questo cammino ti ha portato a scrivere dei racconti lunghi in ognuno dei quali si riscontra la dura realtà del carcere. Quali tra i racconti presenti nel libro è stato il più difficile da scrivere e quale quello in cui si può individuare la speranza di voltare pagina?
Il racconto che mi è costato di più scrivere è stato quello sul male. E’ stato come fare un combattimento ed è l’unico racconto in cui parlo di due persone. La prima è una vittima non consenziente del male, la seconda, invece, è convintamene consenziente. Ed è stato difficile in quanto ho dovuto mettere a confronto due persone che sono apparentemente vinte da un male che li divora in due modi diversi. Lascio comunque alla conclusione del racconto la porta socchiusa della speranza per entrambi. In tutti gli altri racconti c’è il desiderio e la speranza di voltare pagina, di iniziare una vita nuova e bella. Se ne dovessi comunque scegliere uno, sceglierei sicuramente quello sul bene. Non a caso è l’ultimo, in quanto ci tenevo a delineare nella prima parte la figura del volontario carcerario, così come la vivo, e nella seconda parte la storia di Carmelo, che è un inno alla vita. Ci tenevo a ribadire alla fine del racconto e del testo che il male non avrà mai l’ultima parola sulla vita umana.
- Quanta voglia c’è tra i carcerati di riscattarsi? Di cambiare?
Ognuno di noi quando commette una mancanza, vorrebbe in qualche modo riscattarsi agli occhi della società e riconquistare la fiducia perduta. Per alcuni, si tratta di strategica sopravvivenza, ci si abbandona a mille promesse per poi ritornare a fare ciò che hanno fatto finora. Siamo dinnanzi ad una doppiezza di cuore. Per altri invece, quella “fine” ha un “fine”, ed hanno una seria motivazione e un puro desiderio ad essere migliori per se stessi e per le persone che non li hanno abbandonati. Certo, dovranno poi confrontarsi con una realtà molto dura e non vi è da escludere nel loro percorso qualche ricaduta. Ma un conto è fare ciò che non si vuole in quanto profondamente sbagliato, un altro conto è amare, giustificare e quindi spavaldamente fare ciò che è male. In ogni caso mi rimane difficile leggere dentro l’animo umano, e quindi riuscire a vedere quanto sia fondato il desiderio di cambiare delle persone che incontro.
- Leggere il tuo libro non è semplice perché bisogna avere un punto di vista altruista e misericordioso. Quindi che tipo di lettore è in grado di comprendere ciò che ha scritto?
Penso sia rivolto a chiunque voglia credere che l’anima di ogni persona, anche quella che appare ai nostri occhi la più malvagia a causa dei suoi reati, è un anima amata da Dio, e in virtù di questo, se lo desidera veramente, ha la capacità di cambiare in meglio la sua vita. Credo inoltre che sia rivolto a coloro che desiderano vedere la persona detenuta con lo stesso sguardo di come li guarda Dio, uno sguardo paterno e materno allo stesso tempo. Uno sguardo misericordioso.